Giacomo da Lentini: Biografia
iacomo (o Jacopo) da Lentini detto «Il Notaro», anche noto come Giacomo da Lentino, era un funzionario della corte imperiale di Federico II a Palermo e il suo nome compare in alcuni documenti di corte negli anni compresi fra il 1233 e il 1240; la tradizione fa dunque risalire la sua opera poetica a questo periodo storico insieme all’invenzione del sonetto, da lui ideato e poi ripreso prima da artisti quali Rinaldo d’Aquino, Pietro della Vigna, Guido e Odo delle Colonne, Giacomino Pugliese, Jacopo Mostacci, l’Abate di Tivoli, e molti altri, e poi dal Dolce stil novo fino a diventare la forma poetica per eccellenza della letteratura italiana. Dante lo cita in un passo della Divina Commedia (Canto XXIV Purgatorio, 56), dove per bocca del rimatore lucchese Bonagiunta Orbicciani, commenta la tradizione lirica dei predecessori, riconoscendo in Giacomo da Lentini il caposcuola della Scuola siciliana, e la denominazione stessa di «Scuola siciliana» risale allo stesso autore del De vulgari eloquentia (De vulg. eloq. I, XII, 4) che indica un movimento letterario di corte che diede luogo a una vasta produzione lirica in volgare. La grandezza di Giacomo da Lentini sta nell’aver dato inizio alla tradizione lirica italiana aprendo la strada a una straordinaria sperimentazione metrico-formale nel cuore della corte imperiale, che a partire dalle forme della poesia provenzale diede ampio spazio al componimento di sonetti in ‘tenzone’ con vari artisti, celebri i due sonetti in tenzone con l’Abate di Tivoli e uno in risposta a Jacopo Mostacci. Tutti gli spunti tematici tipici della tradizione cortese presenti nel suo repertorio vennero ripresi e sviluppati dagli altri esponenti della scuola e tramandati prima attraverso la mediazione dei poeti siculo-toscani, poi attraverso l’elaborazione del Dolce stil novo e Petrarca. Jacopo morì prima del 1250 all’età di cinquant’anni.
Giacomo da Lentini: Opere in catalogo
Sommario
- • CANZONI
- I. Madonna, dir vi voglio
- II. Maravigliosamente
- III. Ben m’è venuto prima al cor doglienza
- IV. Dolce coninciamento
- • Canzoni probabilmente autentiche
- V. Guiderdone aspetto avire
- VI. Poi non mi val merzè nè ben servire
- • SONETTI
- VII. Tenzone con Jacopo Mostacci e Pier della Vigna
- 1. Solicitando un poco meo savere (Jacopo Mostacci)
- 2. Però ch’Amore no si pò vedere (Pier della Vigna)
- 3. Amor è un disio che ven da core (Giacomo)
- VIII. Tenzone con l’Abate di Tivoli
- IX. Molti amadori la lor malatia
- X. All’ aira chiara ò vista plogia dare
- XI. Chi non avesse mai veduto foco
- XII. Io m’ agio posto in core a Dio servire
- XIII. Madonna à ’n sè vertute con valore
- • Sonetti di dubbia autenticità
- XIV. Or come pote sì gran donna entrare
- • DISCORDO
- XV. Dal core mi vene
CANZONI
I
Dal cod. ms. Vat. lat. 3793
Madonna, dir vi voglio
come l’amor m’à priso;
inver lo grande orgoglio
che voi, bella, mostrate, e’ no m’ aita.
Oi lasso! lo me’ core5
ch’è ’n tante pene miso,
che vede che si more
per bene amare, e tenelosi a vita.
Adunque morire’ eo ?
No; ma lo core meo10
more spesso e più forte
che no faria di morte – naturale
per voi, donna, cui ama,
più che sè stesso brama,
e voi pur lo sdengate.15
Amor, vostr’amistate – vide male.
Lo meo ’namoramento
nom pò parire in detto,
così com’io lo sento
core nol penzeria, nè diria lingua;20
zò ch’eo dico è neente.
In ver, ch’io son distretto
tanto coralemente!
Foc’ aio, non credo che mai si stingua,
anzi si pur aluma.25
Perché non mi consuma ?
La salamandra audivi
ca nelo foco vivi – stando sana;
così fo per long’uso;
vivo in foco amoroso30
e non saccio che dica;
chè ’l mi’ lavoro spica – e poi non grana.
Madonna, sì m’ avene
ch’i’ nom posso invenire
com’ io dicesse bene35
la propia cosa ch’ io sento d’ amore.
Sì com’ omo in prodito
lo cor mi fa sentire,
che giamai non è chito
fin tanto che non vene al suo sentore.40
Lo nom poter mi turba,
com’ om che pinge e sturba,
e pure li dispiace
lo pingere che face, – e sè riprende.
Chè non è per natura45
la propïa pintura;
e non è da blasmare
omo che cade in mare, – se s’aprende.
Lo vostro amor, che m’ave
in mare tempestoso,50
è sì como la nave
c’a la fortuna gitta ogni pesanti,
e càmpane per getto
di loco periglioso.
Similemente eo getto55
a voi, bella, li mie’ sospiri e pianti.
E s’eo no gli gitasse,
paria che sofondasse,
e bene sofondara
lo cor, tanto gravara – in su’ disio.60
Tanto si frange a terra
tempesta che s’aterra,
ed io così mi frango;
quando sospiro e piango, – posar crio.
Assai mi son mostrato65
a voi, donna spietata,
com’io so’ inamorato;
ma creio ch’ i’ dispiaceria a voi pinto.
Poi c’ a me solo, lasso!
cotal ventura è data,70
perchè non me ne lasso ?
Nom posso; di tal guisa Amor m’à vinto.
Voria c’or avenisse
che lo me’ cor’ uscisse
come ’ncarnato tutto,75
e non dicesse motto – a voi sdegnosa.
C’Amore a tal l’adusse
ca se vipra ivi fusse,
natura perderia;
a tal lo vederia – fora pietosa.80
II
Dal cod. ms. Vat. lat. 3793
Maravigliosamente
un amor mi distringe,
e sovenmi ad ogn’ ora,
com’ omo che ten mente
in altra parte, e pinge5
la simile pintura.
Così, bella, facci’ eo;
dentro a lo core meo
porto la tua figura.
In cor par ch’i’ vi porte,10
pinta come parete,
e non pare di fore.
O Deo! co’ mi par forte!
Non so se lo savete,
com’ io v’amo a bon core;15
cà son sì vergognoso
ch’io pur vi guardo ascoso,
e non vi mostro amore.
Avendo gran disio,
dipinsi una pintura,20
bella, voi simigliante,
e quando voi non vio,
guardo in quella figura,
e par ch’ io v’agia avante;
sì com’ om che si crede25
salvare per sua fede,
ancor non vegia inante.
Al cor m’arde una doglia,
com’ om che ten lo foco
a lo suo seno ascoso,30
e quando più lo ’nvoglia,
alora arde più loco,
e non pò stare inchiuso;
similemente eo ardo
quando passo e non guardo35
a voi, viso amoroso.
Se siete, quando passo,
in ver voi non mi giro,
bella, per isguardare.
Andando, ad ogni passo40
gittone uno sospiro
che mi face ancosciare.
E certo bene ancoscio,
c’a pena mi conoscio,
tanto bella mi pare.45
Assai v’agio laudato,
madonna, in tute parti
di belleze c’avete.
Non so se v’è contato
ched i’ ’l faccia per arti,50
che voi ve ne dolete.
Sacciatelo per singa,
zò ch’ i’ vi dirò a linga,
quando voi mi vedete.
Canzonetta novella,55
va e canta nova cosa;
(lèvati da maitino!)
davanti a la più bella,
fiore d’ogni amorosa,
bionda più c’auro fino:60
«Lo vostro amor, ch’è caro,
donatelo al Notaro,
ch’ è nato da Lentino».
III
Dal cod. ms. Vat. lat. 3793
Ben m’è venuto prima cor doglienza,
poi benvolenza – orgoglio m’è rendente
di voi, madonna, incontro a mia sofrenza.
Non è valenza – far male a sofrente.
Ma sì è potente – vostra segnoria,5
c’avendo male, più v’amo ogne dia;
però tutor la troppa sicuranza
ubria conoscenza ed inoranza.
E dunque, Amor, ben fora convenenza,
d’aver temenza – come l’altra gente,10
che tornano di lor discanoscenza
a la credenza – de lor benvolente.
Chi è temente – fugge villania,
e per coverta tal fa cortesia,
ch’io non voria da voi bella semblanza,15
se dal core non vi venisse amanza.
Ch’io non vi faccio, donna, contendenza,25
ma ubidenza, – ed amo coralmente;
però non dev’ io pianger penitenza,
che nullo senza – colpa è penitente.
Naturalmente – avene tutavia
c’omo s’orgoglia a chi lo contrarìa;30
ma ’l vostr’orgoglio passa sorchietanza,
che si smisura contro ad umilianza.
E chi a torto batte e fa ’ncrescenza,
di piacer penza - assai, poi si pente;
però mi pasco di bona credenza,
c’ Amor conenza – prima a dar tormente.20
Dunque più gente – saria la gioia mia,
se per mi’ amor l’orgoglio s’umilìa,
e la fereza torna ’n pietanza;
be·llo può fare Amor, ch’ egli è sua usanza.
Ma se voi sete sanza percepenza,
como Florenza – che d’orgoglio sente,
guardate a Pisa c’à gran canoscenza,35
che teme ’ntenza – d’orgogliosa gente.
Già lungiamente – orgoglio v’ à ’m ballia;
Melan a lo caroccio par che sia.
Ma se si tarda l’umile speranza,
chi sofra sgombra e vince ogne tardanza.40
IV
Dal cod. ms. Vat. lat. 3793
Dolce coninciamento,
canto per la più fina
che sia, al mio parimento,
d’Agri infino in Mesina;
cioè la più avenente.5
«O stella rilucente,
che levi la maitina,
quando m’apar davanti,
li tuo’ dolzi sembianti
m’ incendon la corina».10
«Dolce meo Sir, s’encendi,
or io che degio fare ?
tu stesso ti riprendi,
se mi vei favellare.
Cà tu m’ai ’namorata,15
a lo cor m’ai lanciata
sì ca di for nom pare».
«Rimembriti a la fiata
quand’ io t’ebi abrazata,
a li dolzi basciare ?».20
Ed io basciando stava
in gran diletamento
con quella che m’amava,
bionda, viso d’argento.
Presente mi contava,25
e non mi si celava,
tuto suo convenente;
e disse: «Io t’ameragio,
e non ti falleragio
a tuto ’l mio vivente».30
«Al mio vivente, amore,
io non ti falliragio
per lo lusingatore
che parla di fallagio;
ed io sì t’ameragio!35
per quello ch’è salvagio,
Dio li mandi dolore!
unque non vegna a magio!
tant’ è di mal usagio,
che di stat’ à gelore».40
V
Dal cod. ms. Vat. lat. 3793
Nota: Questa canzone è probabilmente autentica
Guiderdone aspetto avire
di voi, donna, cui servire
non m’ è noia.
Si mi sete tanto altera,
ancor spero avere intera5
d’amor gioia.
Non vivo in disperanza,
ancor che mi diffidi
la vostra disdegnanza;
cà spesse volte vidi, – ed è provato,10
omo di poco affare
per venire in gra’ loco,
se si sape avanzare,
moltipricar lo poco – c’à ’quistato.
In dispranza non mi getto,15
ch’io medesmo m’ imprometto
d’ aver bene.
Di bon core è la leanza
ch’ i’ vi porto, e la speranza
mi mantene.20
A ciò non mi scoragio
d’amor che m’ a distretto:
sì com’ omo salvagio
faragio, com’ è detto – ch’ello face:
per lo reo tempo ride,25
sperando che poi pera
la laida are che vide;
di donna troppo fera – spero pace.
S’io pur spero in allegranza,
fina donna, pïetanza30
in voi si mova.
Fina donna, non sïate
fera, poi tanta bieltate
in voi si trova.
Cà donna c’à belleze35
ed è sanza pietade,
com’ omo è c’ à richeze
ed usa scarsitade – di ciò c’ave;
se non è bene apreso,
nè dritto nè insegnato,40
da ogn’ omo n’è ripreso,
oruto e dispresgiato – e presgio à grave.
Donna mia, ch’io nom perisca!
s’io vi prego, non v’ncrisca
mia preghera:45
la belleze che ’n voi pare
mi distringe, e lo sguardare
de la cera.
La figura piacente
lo core mi diranca;50
quando vi tegno mente,
lo spirito mi manca – e torna in ghiaccio.
Né mica mi spaventa
l’amoroso volere
di ciò che m’atalenta,55
ch’io no lo posso avere; – ond’ i’ mi sfaccio.
VI
Dal cod. ms. Laurenziano Rediano 9
Nota: Questa canzone è probabilmente autentica
Poi non mi val merzè nè ben servire
inver madonna, in cui tegno speranza,
e amo lealmente,
non so che cosa mi poria valire;
se non le prende di me pietanza,5
ben morrò certamente.
Per neente – mi cangiò lo suo talento,
und’ io tormento, – e vivo in gran dottanza,
e son di molte pene soferente.
Poi soferente sono al suo piacire,10
di bon core l’amo e co’ leanza,
e servo umilemente;
chè meglio m’è per ella pena avire,
che per un’ altra bene con baldanza,
tanto le so’ ubidente.15
Ardente – son di far suo piacimento:
mai non ò abento – d’aver sua menbranza,
in quella, in cui disïo spessamente.
Spessamente disio e sono al perire,
menbrando che m’ à messo in ubrïanza20
l’amorosa piagente;
sanza misfatto no m’ dovea punire,
nè far partenza de la nostra amanza,
per tanto è cannoscente.
Temente – son, non ò confortamento,25
poi valimento – non dà, ma pesanza,
e fallami di tutto ’l suo convente.
Convento ben mi fece di valire,
è donòmi una gio’ per rimenbranza,
ch’ i’ stesse allegramente;30
or la m’ à tolta per troppo savire.
Dice che ’n altra parte ò mia intendanza;
e io so veracemente,
non sente – nel mio core fallimento.
Non ò ’n talento – di far misleanza35
inver di voi per altra al meo vivente.
Vivente donna non creo che partire
potesse lo mio cor di sua possanza,
non fosse sì avenente,
perch’ io lasciar volesse d’ubidire40
quella che pregio e belleze inavanza.
Fammi stare sovente
la mente – d’amoroso pensamento;
non agio abento, – tanto ’l cor mi lanza
coli riguardi delli occhi ridente.45
SONETTI
VII. TENZONE CON JACOPO MOSTACCI E PIER DELLA VIGNA
Dal cod. ms. Vat. lat. 3793
1. JACOPO MOSTACCI
Solicitando un poco meo savere,
e con lui mi voglendomi diletare,
un dubio che mi misi ad avere,
a vui lo mando per determinare.
Ogn’ omo dice ch’ Amor à podere,5
e gli coragi distringe ad amare;
ma eo no lo voglio consentere,
però ch’ Amore no parse ni pare.
Ben trova l’om una amorosa etate,
la quale par che nasca di placere,10
e ciò vole dire om che sia amore.
Eo no li saccio altra qualitate;
ma ciò che è, da vui lo voglio odere;
però ve ne faccio sentenzatore.
2. PIER DELLA VIGNA
Però ch’ Amore no si pò vedere,
e no si trata corporalemente,
manti ne son di sì fole sapere
che credeno ch’ Amore sia niente.
Ma po’ ch’ Amore si face sentere5
dentro dal cor signoregiar la gente,
molto magiore presio dè avere
che se ’l vedessen visibilemente.
Per la vertute de la calamita,
como lo ferro atrae no si vede,10
ma sì lo tira signorevolmente;
e questa cosa a credere m’nvita
ch’ Amore sia; e dami grande fede,
che tutor sia creduto fra la gente.
3. NOTAR JACOPO DA LENTINO
Amor è un disio che ven da core
per abondanza di gran placimento;
e gl’ ochi in prima generan l’amore,
e lo core li dà nutricamento.
Ben è alcuna fiata om amatore,5
senza vedere so ’namoramento;
ma quel amor che stringe con furore,
da la vista degl’ occhi à nascimento.
Chè gl’ ochi rapresentan a lo core
d’ogni cosa che veden, bona e ria,10
com’è formata naturalemente;
e lo core che di zo è concepitore,
zo che imagina e place, quel disia:
e questo amore regna fra la gente.
VIII. TENZONE con l’ABATE DI TIVOLI
IX
Dal cod. ms. Vat. lat. 3793
Molti amadori la lor malatia
portano in core, che ’n vista nom pare;
ed io nom posso sì celar la mia
ch’ella nom paia per lo mio penare;
però che son sotto altrui segnoria,5
nè di meve non ò neiente a fare,
se non quanto madonna mia voria,
ch’ella mi pote morte e vita dare.
Su’ è lo core, e suo sono tutto quanto,
e chi non à comsiglio da suo core,10
non vive imfra la gente como deve.
Càd io nom sono mio nè più nè tanto,
se non quanto madonna è de mi fore,
ed un poco di spirito ch’ è ’n meve.
X
Dal cod. ms. Vat. Barb. lat. 3953
All’aira chiara ò vista plogia dare,
ed a lo scuro rendere chiarore,
e foco arzente ghiaccia diventare,
e freda neve rendere calore,
e dolze cosa molto amareare,5
ed el amare rendere dolzore,
e due guerreri im fina pace stare,
e ’ntra due amici nascere incendore.
Ed ò vista d’Amor cosa più forte:
ch’ era feruto, e sanòmi ferendo;10
lo foco donde ardea stutò com foco.
La vita che mi diè fue la mia morte;
lo foco che mi stinse ora ne ’ncendo;
d’amor mi trasse e misemi im su’ loco.
XI
Dal cod. ms. Vat. Barb. lat. 3953
Chi non avesse mai veduto foco,
no crederia che cocere potesse;
anti li senbraria solazo e gioco
lo so isprendore quando lo vedesse.
Ma s’ello lo tocasse in alcun loco,5
be·lli senbrara che forte cocesse.
Quello d’Amore m’a tocato un poco;
molto me coce. Deo, che s’aprendesse!
Che s’aprendesse in voi, donna mia!
che mi mostrate dar solazo amando,10
e voi mi date pur pen’ e tormento.
E certo l’Amor fa gran vilania,
che no distringe te, che vai gabando;
a me, che servo, non dà isbaldimento.
XII
Dal cod. ms. Vat. lat. 3793
Io m’ agio posto in core a Dio servire,
com’ io potesse gire im paradiso,
al santo loco, c’agio audito dire,
o’ si mantien sollazo, gioco e riso.
Sanza mia donna non vi voria gire,5
quella c’ à blonda testa e claro viso,
chè sanza lei non porzeria gaudire,
estando da la mia donna diviso.
Ma no lo dico a tale intendimento,
perch’ io pecato ci volesse fare;10
se non veder lo suo bel portamento,
e ’l bello viso e ’l morbido sguardare;
chè ’l mi teria in gran consolamento,
vegendo la mia donna in ghiora stare.
XIII
Dal cod. ms. Vat. lat. 3793
Madonna à ’n sè vertute con valore,
più che null’ altra gemma presïosa;
chè isguardando mi tolse lo core,
cotant’ è di natura vertudiosa.
Più luce sua beltate e dà sprendore,5
che non fa ’l sole, nè null’ autra cosa:
de tute l’autre ell’ è sovran’ e frore,
chè nulla aparegiare a lei non osa.
Di nulla cosa non à mancamento,
né fu, ned è, nè non serà sua pare,10
nè ’n cui si trovi tanto conplimento.
E credo ben, se Dio l’avesse a fare,
non vi metrebbe sì su’ ’ntendimento
che la potesse simile formare.
XIV
Dal cod. ms. Vat. lat. 3793
Nota: Questo sonetto è di dubbia autenticità
Or come pote sì gran donna entrare
per gli ochi mei, che sì picioli sone ?
E nel mio core come pote stare,
che ’n entr’ esso la porto laonque i’ vone ?
Lo loco laonde entra già nom pare,5
ond’ io gran meraviglia me ne done.
Ma voglio lei a lumera asomigliare,
e gli ochi mei al vetro ove si pone.
Lo foco inchiuso, poi passa di fore
lo suo lostrore, sanza far rotura;10
così per gli ochi mi passa lo core,
no la persona, ma la sua figura.
Rinovellare mi voglio d’amore,
poi porto insegna di tal criatura.
DISCORDO
XV
Dal cod. ms. Vat. lat. 3793
Dal core mi vene
che gli occhi mi tene
rosata.
Spesso m’adivene
che la cera ò bene5
bagnata,
quando mi sovene
di mia bona spene,
c’ ò data
in voi, amorosa,10
benaventurosa.
Però se m’amate,
già non vi ’ngannate
neiente.
Cà pur aspetando,15
in voi ’maginando,
l’amor che ’n voi agio,
mi stringe ’l coragio,
avenente.
Cà s’ io non temesse,20
c’ a voi dispiacesse,
ben m’aucideria,
e non viveria
este tormente,
a pur penare25
e disiare,
giamai non fare
mia diletanza.
La rimembranza
di voi, aulente cosa,30
gli ochi m’arosa
d’ un’agua d’ amore.
Or potess’ eo,
o amore meo,
come romeo35
venire ascoso,
e disioso
con voi mi vedisse,
non mi partisse
dal vostro dolzore.40
Dal vostro lato
alungato,
be·ll’ ò provato
mal è che non salda.
Tristano ed Isalda45
non amar sì forte.
Ben mi pare morte
non vedervi, fiore,
vostro valore,
c’adorna ed invia50
donne e donzelli.
Li avisatore
di voi, donna mia,
son gli ochi belli.
Pensa’ tutore,55
quando vi vedia
con gio’ novelli:
«Hoi tu, meo core,
perchè non ti more ?
Rispondi: che fai ?»60
«Perchè doglio
così ?
Non ti rispondo,
ma ben ti confondo,
se tosto non vai65
là ove voglio
co’ mi.
Cà la fresca cera
tempesta e dispera;
in pensiero m’ài70
misso, e ’n cordoglio
per ti.»
Così, bella,
si favella
lo mi’ core con meco.75
Di nul’ altra persona
non mi rasgiona,
nè parla, nè dice.
Sì curale
e naturale80
amore di voi mi piace,
c’ogni vista,
mi par trista,
c’altra donna face.
Cà s’io viglio85
o sonno piglio,
lo mio core non insonna,
se non scetto,
sì m’ à stretto,
pur di voi, madonna.90
Sì mi sdura
scura
figura
di quant’ io
ne vio.95
Gli ochi avere
e vedere,
e volere,
mai altro non disio;
triece sciolte,100
ma volte,
ma dolte,
nè bruna nè bianca.
Gioia complita
norita,105
m’invita;
voi siete più fina.
S’io faccio
sollaccio,
ch’ io piaccio,110
lo vostro amore mi mina
dotrina
e benvolenza.
La vostra benevolenza
mi dona canoscenza115
di servire a chiacenza
quella che più m’agenza,
e agio ritenenza
per la troppa sovenenza.
E non mi porta120
Amore che porta
e tira ad ogne frino,
e non corre;
sì che scorre
per amore fino.125
ben voria,
e non lasceria
per nulla leanza,
s’io sapisse
ch’io morisse;130
sì mi stringe amanza.
E tuto credo,
e non discredo,
che la mia venuta
dea placere,135
ed alegrere
de la veduta.
Ma sempre mai non sento
vostro comandamento;
e non ò confortamento140
del vostro avenimento.
Ch’ i’ mi sto, e non canto
sì c’ a voi piaccia tanto;
e mandovi infratanto
saluti, e dolze pianto.145
Piango per usagio;
giàmai no rideragio
mentre non vederagio
lo vostro bel visagio.
Rasgione agio,150
ed altro non faragio,
nè poragio;
tal è lo mi’ coragio.
C’altre parole
non vole;155
ma dole
de li parlamenti
de le genti.
Non consenti
nè che parli, nè che dolenti.160
Ed agio veduta
per lasciare
la mia tenuta
de lo meo dolce penzare.
Sì como165
nui,
che somo
d’un core
dui;
ed ore170
plui
ch’ancore
non fui;
di vui,
bel viso,175
sono priso
e conquiso,
che fra dormentare
mi fa levare,
e intrare180
in sì gran foco
ca per poco
non m’ aucido
de lo strido
ch’ io ne gitto,185
ch’io non vegna là ove siete;
rimenbrando,
bella, quando
con voi mi vedea
sollazando,190
ed istando
in gioia, sì come fare solea.
Per quant’ agio
di gioia,
tant’ agio195
di mala noia;
la mia vita è croia
sanza voi vedendo.
Cantando aì! vo,
in gioia or vivo200
pur pensivo;
e tuta gente schivo,
sì ch’ io vo sfugendo,
pur cherendo
ond’io m’asconda.205
Onde lo core m’abonda,
e gli ochi fuori gronda,
sì dolcemente fonda,
come lo fino or che fonda.
Ora mi risponda,210
e mandatemi a dire.
voi che martire
per me soferite,
ben vi doverite
infra lo core dolire215
de’ mie’ martire,
se vi sovenite
come site
lontana,
sovrana220
de lo core prosimana.
Bibliografia:
• Contini, Gianfranco, Poeti del Duecento, Milano : R. Ricciardi, 1995.
• Dal testo alla storia, Dalla storia al testo, a cura di Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria, Paravia, 1993.
• Giacomo, da Lentini, Langley, Ernest F. (editor), The poetry of Giacomo da Lentino, Sicilian poet of the thirteenth century Cambridge : Harvard University Press, 1915.
• Manoscritto del Canzoniere Vaticano latino 3793, Città del Vaticano : Biblioteca Apostolica Vaticana, 1276-1325 (cod. ms. Vat. lat. 3793 - Riproduzione digitale).
Nota filologica: I testi qui riprodotti, a cura di Silvia Licciardello, seguono la variantistica proposta dall’edizione Langley, Harvard University Press.
Collegamenti esterni:
- • Giacomo da Lentini su Wikipedia
- • Giacomo da Lentini nel Dizionario Biografico dell’Enciclopedia Treccani
- • Giacomo da Lentini nell’Enciclopedia Treccani
- • La Scuola siciliana nell’Enciclopedia Treccani
- • Il Tenzone nell’Enciclopedia Treccani
- • La Scuola poetica siciliana nell’Enciclopedia Treccani
- • La cultura cavalleresca nell’Enciclopedia Treccani
Giacomo da Lentini: GLOSSARIO
- cortéṡe
- Che ha le qualità proprie della persona di corte, cioè soprattutto nobiltà, gentilezza, liberalità. Lirica c., la poesia volgare fiorita nelle corti feudali dei sec. 12° e 13°, spec. in Provenza e poi in Italia, nella quale l’amore del poeta alla sua donna (amor c.), paragonabile all’omaggio che il cortigiano rivolge alla sua signora, promuove ed esalta la virtù di chi ama. Per estens., la poesia anche posteriore che s’ispira a un’analoga concezione dell’amore.