Pietro della Vigna: Biografia
ietro della Vigna (Petrus De Vinea), conosciuto anche come Pier delle Vigne, o nato a Capua, in Campania e morto forse a Pisa nel 1249, era un ministro dell'impero di Federico II, noto come giudice, poeta e uomo di lettere tra gli esponenti della Scuola siciliana. Come per gli altri componenti della scuola le notizie storiche sulla sua vita sono scarse ma la sua tragica morte venne citata da Dante Alighieri nella Divina Commedia e molti hanno espresso le più fervide intuizioni riguardo la causa della sua caduta. Di oscuri natali (si crede che i suoi genitori fossero poco più che mendicanti) studiò giurisprudenza a Bologna, forse con una borsa di studio del comune. Nel 1221 l'Arcivescovo di Palermo lo introdusse nella corte federiciana e l'imperatore lo proclamò notaio di corte. Dal 1225 al 1234 fu giudice della Magna Curia, diventando il principale autore della costituzione di Melfi (1231) e il principale consigliere dell'imperatore. Viaggiò anche per delle importanti missioni diplomatiche per conto dell'imperatore e nel 1246 divenne cancelliere del regno. Nel 1249, l'accusa di tradimento per aver ordito contro l'imperatore cercando di avvelenarlo, lo fece cadere in disgrazia e si pensa che D. si sia tolto la vita dopo il suo arresto a Cremona.
Pietro della Vigna: Opere in catalogo
I
Amore, in cui disio ed ho speranza,
di voi, bella, m’ha dato guiderdone,
e guardomi infinché vegna allegranza,
pur aspettando bon tempo e stagione.
Com’om ch’è in mare ed ha spene di gire,5
e quando vede il tempo, ed ello spanna,
e già mai la speranza no lo ’nganna,
così facc'io, madonna, in voi venire.
Or potess’eo venire a voi, amorosa,
com' lo larone ascoso, e non paresse:10
be'l mi ter[r]ia in gioia aventurusa,
se l’Amor tanto bene mi facesse.
Sì bel parlante, donna, con voi fora,
e direi como v’amai lungiamente,
più ca Piramo Tisbia dolzemente,15
ed amerag[g]io infinch’eo vivo ancora.
Vostro amor' è che mi tene in disi[r]o
e donami speranza con gran gioi,
ch’eo non curo s’io doglio od ho martiro,
membrando l’ora ched io vegno a voi,20
ca, s’io troppo dimoro, par ch’io pèra,
aulente lena, e voi mi perderete;
adunque, bella, se ben mi volete,
guardate ch’io non mora in vostra spera.
In vostra spera vivo, donna mia,25
e lo mio core adessa voi dimanda,
e l’ora tardi mi pare che sia
che fino amore a vostro cor mi manda;
e guardo tempo che sia a piacimento
e spanda le mie vele inver' voi, rosa,30
e prendo porto là ove si riposa
lo meo core a l[o] vostro insegnamento.
Mia canzonetta, porta esti compianti
a quella c’ha ’n bailïa lo meo core,
e le mie pene contale davanti35
e dille com’eo moro per suo amore;
e mandimi per suo messag[g]io a dire
com’io conforti l’amor chi lei porto;
e s[ed] io ver' lei feci alcuno torto,
donimi penitenza al suo volire.40
II
Uno piasente isguardo
coralmente m’ha feruto,
und’eo d’amore sentomi infiammato;
ed è stato uno dardo
pungent'e sì forte acuto5
che mi passao lo core e m’ha ’ntamato.
Or sono in tali mene
che dico: «Oi lasso mene, - com' farag[g]io,
se da madonna mia aiuto non ag[g]io?».
Li oc[c]hi miei ci ’ncolparo,10
che volsero riguardare,
ond’io n’ho riceputo male a torto,
quand’elli s’avisaro
cogli oc[c]hi suo’ micidari,
e quegli oc[c]hi m’hanno conquisto e morto.15
La boc[c]a e li denti
e li gesti piacenti - m’han conquiso
e tutte l’altre gioi de lo bel viso.
Traditrice ventura,
perché mi ci amenasti,20
ca io non era ausato a esta partuta?
Volsi partire allora,
e tu mi asicurasti,
unde al core ag[g]io una mortal feruta.
Non avea miso mente25
a lo viso piacente, - e poi guardai
in quello punto, ed io m’inamorai.
Di quella innamoranza
eo me ne sento tal doglia
che nulla medicina me non vale.30
Ancor tegno speranza
che si le muti la voglia
a quella che m’ha fatto tanto male.
Ancor m’ag[g]i' ascondutto,
eo dirag[g]io altro motto, - c'ha disdire,35
poi ch’ella vederà lo meo servire.
Lasso, ch’io so incap[p]ato!
Veg[g]iom' i[n] strana contrata
e son lontano da li miei paesi.
Amor m’ha impelagato,40
furtuna m’è curuc[c]iata,
da poi che ’n questi tormenti mi misi.
E io non so la via ove mi gire:
convenemi sofrire - este gran pene,
ca per durare male ha l’omo bene.45
Se de lo suo parlare
non mi fosse tanto fera,
dicesse alcuna cosa, al meo parere,
solo per confortare
(in ciò ch'e[lla] mi dispera)50
ch’eo mi pugnasse pur di ben servire:
ca s’eo fosse oltra mare,
converriami tornare - a esta contrata,
ben faria cento millia la giornata.
Canzonetta piagente,55
poi c’Amore lo comanda,
non [mi] tardare e vanne a la più fina;
saluta l’avenente
e dille c' «A voi mi manda
un vostro fino amante di Mes[s]ina.60
Mandavi esto cantare:
deh vi deg[g]ia membrare - del suo amore;
mentre che vive è vostro servidore».
III
Amando con fin core e con speranza,
di grande gio' fidanza
donòmi Amor piu ch’eo no meritai,
che m’inalzao coralmente d’amanza,
da la cui rimembranza5
lo meo corag[g]io non diparto mai:
e non poria partire
per tutto 'l meo volere,
sì m’e[este] sua figura al core impressa,
ancor mi sia partente10
da lei corporalmente
la Morte amara, crudele ed ingressa.
La Morte m’este amara, che l’amore
mutòmi in amarore;
crudele, che punìo senza penzare15
la sublimata stella de l’albore
senza colpa a tuttore,
per cui servire mi credea salvare;
ingressa m’è la Morte
per afretosa sorte,20
non astettando fine naturale
di quella in cui Natura
mise tutta misura
for che termin di morte corporale.
Per tal termino mi compiango e doglio,25
perdo gioia e mi svoglio
quando süa contezza mi rimembra
di quella ch’io amare e servir soglio:
di ciò viver non voglio,
ma dipartire l’alma da le membra.30
E faria ciò ch’eo dico,
se non ch’a lo nemico
che m’ha tolta madonna placeria,
cioè la Morte fera,
che non guarda cui fera:35
per lei podire aucire eo moriria.
No la posso aucire, né vengiamento
prendere al meo talento,
più che darmi conforto e bona voglia,
ed ancor non mi sia a piacimento40
nessun confortamento,
tanto conforto ch’io vivo in doglia.
Donqua vivendo eo
ve[n]gio del danno meo,
servendo Amor ch'a la Morte fa guerra;45
e a lui servirag[g]io
mentre ch’eo viverag[g]io;
in suo domìn' rimembranza mi serra.
Rimembranza mi serra in suo domìno,
unde ver' lui mi ’nchino,50
merzé chiamando [a] Amore che mi vaglia:
vagliami Amore per cui non rifino,
ma senza spene affino,
ch’a lui servendo, gio' m’è la travaglia.
Donimi alcuna spene,55
ma di cui mi sovene
non voi’ che men per morte mi sovegna,
di quella in cui fôr mise
tutte bellezz'e assise,
senza le quale Amore in me non regna.60
IV
Però ch'amore non si pò vedere
e no si tratta corporalemente,
manti ne son di sì folle sapere
che credono ch'amor sïa nïente.
Ma po' ch'amore si face sentire5
dentro dal cor signoreggiar la gente,
molto maggiore presio de[ve] avere
che se 'l vedessen visibilemente.
Per la vertute de la calamita
como lo ferro at[i]ra no si vede,10
ma sì lo tira signorevolmente;
e questa cosa a credere mi 'nvita
ch'amore sia; e dàmi grande fede
che tuttor sia creduto fra la gente.
Bibliografia: Contini, Gianfranco, Poeti del Duecento, Milano : R. Ricciardi, 1995.
Dal testo alla storia, Dalla storia al testo, a cura di Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria, Paravia, 1993.
Collegamenti esterni:
- • Pier della Vigna su Wikipedia
- • Pietro della Vigna nel Dizionario di Storia dell'Enciclopedia Treccani
- • Pier della Vigna nell'Enciclopedia Treccani
- • La Scuola siciliana nell'Enciclopedia Treccani
- • Il Tenzone nell'Enciclopedia Treccani
- • La Scuola poetica siciliana nell'Enciclopedia Treccani
- • La cultura cavalleresca nell'Enciclopedia Treccani