Per fino amore vao sì letamente
Rinaldo d'Aquino: Biografia
sponente della Scuola siciliana di Federico II di Svevia, e notaio al pari del più celebre Giacomo (o Jacopo) da Lentini detto appunto «Il Notaro». Come per gli altri componenti della scuola le notizie storiche sulla sua vita sono scarse ma la sua canzone Per fino amore vao sì letamente venne citata da Dante Alighieri al pari di altre opere della Scuola siciliana. Secondo Mario Garofalo (Mario Garofalo, Rinaldo d'Aquino. Rimatore montellese del '200, Società Storia Irpina, 1990) era nato nell'ultimo decennio del XII sec. dalla nobile Teodora e da Landolfo e sembra che fosse fratello di Filippo e di San Tommaso d'Aquino. Nella canzone Amorosa donna fina il poeta dice di essere nato a Montella, in Campania, e secondo le fonti storiche pare sia stato nominato falconiere dell'imperatore nel 1240 e che abbia successivamente tradito Manfredi per allearsi con Carlo d'Angiò, che in cambio gli fece dono del feudo di Roccasecca, nei pressi di Frosinone.
Rinaldo d'Aquino: Opere in catalogo
I
Meglio val dire ciò c’omo à ’n talento,
ca vivere in penare istando muto
solo ched agia tal cominzamento
che, di po’ ’l dire, non vegna pentuto;
chè ben pot’omo far tal movimento,5
pu[r] ragion agia, non este ’ntenduto;
per zo di diri agia avegiamento,
che non si blasmi de lo suo creduto.
E saccio ben c’a molti è adivenuto,
zo c’àn detto non à loco neiente;10
sempre di lor de’ omo avere spera,
che folleggiando àn zo ched àn voluto,
non per saper, nè per esser temente:
chi cusì face, certo ben finèra.
II
Un oseletto che canta d’amore
sento la not[t]e far sì dulzi versi,
che me fa mover un’aqua dal core
e ven a gl[i] ogli, nè pò ritenersi
che no sparga fora cum tal furore,5
che di corrente vena par che versi;
et i’ pensando che cosa è l’amore,
si zeto fora suspiri diversi.
Considerando la vita amorosa
di l’oselet[t]o che cantar no fina,10
la mia gravosa pena porto in pace:
fera pos[s]anza ne l’amor reposa,
c’ogn’amador[e] la dot[t]a e[d] enclina,
e dona canto e planto a cui li place.
III
Amor, che m’à ’n comando,
vuol ch’io degia cantare
lo mal dire e contare
che mi fa soferire,
di quella rimembrando5
c’altra più bella, [o] pare,
non por[r]ia rinformare
natur’ a suo podire
e a cui lungiamente
servidore son stato - e leanza10
le porto con fin core e co speranza:
ch’i’ spero ed ò portato
che se fallanza - inver di lei facisse
che gioia e tut[t]o ben fallisse;
per ch’io non falseragio al mio vivente.15
A vita mia falsando
non por[r]ia, ciò mi pare;
be[n] mi por[r]ia alegrare
di tal donna servire,
ca ’l suo pregio ’nalzando20
lo suo viso mostrare
mi fa sovente stare
di gioi a risbaldire.
E poi ch’io ’ncontanente
de la gioi so alungiato, - isperanza25
mi vene e poi mi torna in dubitanza
perchè so adimorato
e ritornanza - non so quando avisse.
E ciò faria, si far potisse,
che fino amore in gioi sia risbaldente.30
Forte potess’eo, stando,
d’amore più durare
mal che mi fa [a] durare
la dimora sentire!
E poi ch’ella, scoltando,35
le piacerà mandare,
piac[c]iale che di stare
o dovesse di gire!
Deu! ben l’ò coralmente
cotanto disiato, - che ’gnoranza40
m’e[ste] venuta cotale speranza;
ca, s’io fossce agiutato,
[i]n disperanza - non crederia venisse
nè null’allegranza sentisse.
IV
Amorosa donna fina,
stella che levi la dia
sembran le vostre belleze;
sovrana fior di Messina,
non pare che donna sia5
vostra para d’adorneze.
Or dunque no è maraviglia
se fiamma d’amor m’apiglia
guardando lo vostro viso,
chè l’amor mi ’nfiamma in foco.10
Sol ch’i’o vi riguardo un poco,
levatemi gioco e riso.
Gioco e riso mi levate,
membrando tutta stagione
che d’amor vi fui servente15
nè de la vostra amistate
non eb[b]’io anche guiderdone
se no un bascio solamente.
E quel bascio mi ’nfiammao,
chè dal corpo mi levao20
lo core e dedilo a vui.
Degiateci provedere:
che vita pò l’omo avere
se lo cor non è con lui?
Lo meo cor non è con mico,25
ched eo tut[t]o lo v’ò dato
e ne son rimaso in pene;
di sospiri mi notrico,
membrando da voi so errato
ed io so perché m’avene:30
per li sguardi amorosi
che, savete, sono ascosi
quando mi tenete mente;
che li sguardi micidiali
voi facete tanti e tali35
che aucidete la gente.
Altru aucidete che meve,
chè m’avete in foco miso
che d’ogne parte m’al[l]uma;
sutto esto manto di neve,40
di tal foco so raciso,
che [ mai non ] me ne consuma:
d’uno foco che non pare
che [ 'n ] la neve fa ’llumare,
ed incende tra lo ghiaccio;45
quell’è lo foco d’amore
c’arde lo fino amadore
quando e[llo] non à sollaccio.
Lo sollazo non avesse
se non di voi lo sembiante50
con parlamento isguardare
a gran gioi quando volesse,
perchè pato pene tante,
ch’io non le por[r]ia contare.
Ned a null’omo che sia55
la mia voglia non diria,
dovesse morir penando,
se non estu Montellese,
cioè ’l vostro serventese
a voi lo dica in cantando.60
V
Già mai non mi conforto
nè mi voglio ralegrare.
Le navi son giute a porto
e [or] vogliono col[l]are.
Vassene lo più gente5
in terra d’oltramare
ed io, lassa dolente,
como degio fare?
Vassene in altra contrata
e no lo mi manda a diri10
ed io rimagno ingannata:
tanti sono li sospiri,
che mi fanno gran guerra
la notte co la dia,
nè ’n celo ned in terra15
non mi par ch’io sia.
Santus, santus, [santus] Deo,
che ’n la Vergine venisti,
salva e guarda l’amor meo,
poi da me lo dipartisti.20
Oit alta potestade
temuta e dot[t]ata,
la mia dolze amistade
ti sia acomandata!
La croce salva la gente25
e me face disviare,
la croce mi fa dolente
e non mi val Dio pregare.
Oi croce pellegrina,
perchè m’ài sì distrutta?30
Oimè, lassa tapina,
chi ardo e ’ncendo tut[t]a!
Lo ’mperadore con pace
tut[t]o l[o] mondo mantene
ed a me[ve] guerra face,35
chè m’à tolta la mia spene.
Oit alta potestate
temuta e dottata
la mia dolze amistate
vi sia acomandata!40
Quando la croce pigliao,
certo no lo mi pensai,
quelli che tanto m’amao
ed illu tanto amai,
chi [eo] ne fui bat[t]uta45
e messa en pregionia
e in celata tenuta
per la vita mia!
Le navi sono collate
in bonor possano andare50
con elle la mia amistate
e la gente che v’à andare!
[Oi] padre criatore,
a porto le conduci.
chè vanno a servidore55
de la santa Cruci.
Però ti prego, Duccetto,
[tu] che sai la pena mia,
che me ne faci un sonetto
e mandilo in Soria.60
Ch’io non posso abentare
[la] notte nè [la] dia:
in terra d’oltremare
sta la vita mia!
VI
In amoroso pensare
ed in gran disïanza
per voi, bella, son miso,
sì ch’eo non posso posare,
tant’agio tempestanza.5
Vostr’amor, che m’à priso
a lo core tanto coralemente,
mi distringe e distene
la voglia e la spene
e donami martiri,10
sì ch’io non por[r]ia diri
come m’avete preso fortemente.
Fortemente mi ’navanza
e cresce tuttavia
lo meo ’namoramento,15
sì ch’io ne vivo in erranza;
ormai a vita mia
non ò confortamento
se non di voi, piagente crïatura,
che siete sì valente20
e gaia ed avinente,
a cui mi son donato
distretto ed abrazato,
cad eo son tuttor vostro ed in quell’ura,
In quell’ora ch’eo vi vidu25
danzar gioiosamente;
ed eo con voi danzando
dottando [in] lo meo cor cridu
che tanto brevemente
moro pur disïando,30
chè lo meo core a me medesmo sperde.
Agiatende pietanza
e senza dimoranza,
ca chi bene vol fare
non doveria tardare:35
omo che tempo aspetta, tempo perde.
VII
In gioi mi tegno tut[t]a la mia pena
e contolami in gran bonaventura;
come Parisi quando amav’ Alena,
così fac[c]io, membrando per ogn’ura.
Non cura - lo meo cor s’à pene,5
membrando gioi che vene,
quanto più dole ed ell’a[ve] più dura.
Null’omo credo c’ami lealmente
che tema pene inver sua donna c’ama:
amante è che ama falsamente10
quandunque vede un poco e che più brama,
e chiama - tut[t]avia mercede,
e già mai non si crede
c’Amor conosca il male c’altrui inflama.
Però la tegno grande scanoscenza15
chi rimprocc[i]a a l’Amore i suo’ tormenti,
chè non è gioi che si venda in credenza
nè per forza di pene c’altrui senti.
Non menti - a quelli che son suoi,
anti li dona gioi,20
come fa buon segnore a suo serventi.
Dunque, madonna, ben facc[i]o ragione
s’io vi conto le pene ch’io patia.
Ancora chi agia avuto guiderdone
de la più ric[c]a gioia che ’n voi sia,25
vor[r]ia, - bella, a poco a poco
con voi rintrare in gioco,
com’io son vostro e voi, madonna mia.
Or ti rimembri, bella, a quello punto
ched io ti presi ad amare [a] coragio:30
da poi che gravemente m’agie punto,
tut[t]a la pena ben mi pare chi agio.
Ben agio, - amore, e vo’ serviri,
e tragendo martiri,
e non cangio per nulla gioia c’agio.35
VIII
In un gravoso affanno
ben m’ha gittato Amore
e non mi tegno a danno
amar sì alta fiore;
ma, ch’eo non sono amato,5
Amor fece peccato
che ’n tal parte donaomi intendimento;
conforto mia speranza,
pensando che, s’avanza,
bono sofrente aspetta compimento.10
Per ciò non mi dispero
d’amar sì altamente;
adesso merzé chero
servendo umilemente,
ch’a pover omo avene15
ca avventura ha bene;
che monta ed ave assai di valimento;
però non mi scoragio,
ma tuttor serviragio
a quella c’ave tutto insegnamento.20
Dat’ho la mia intendanza,
già mai non si rimove,
e servo con leanza
che ’n essa merzé trove.
Solo questo mi faccia:25
s’eo l’amo, no le spiaccia,
e tegnolomi in gran consolamento;
com’omo ch’a disagio
aspetta d’aver agio,
poco di bene piglia per talento.30
Tanto m’este a plasere
d’aver sua segnoria,
ch’eo non disiro avere
altra donna che sia.
Come quello che crede35
salvarsi per sua fede,
per sua legge venire in suo talento:
a mevi così pare,
non credo mai scampare
sed ella me non dà consolamento.40
IX
Ormai quando flore
e mostrano verdura
le prate e la rivera,
li auselli fan sbaldore
dentro da la frondura5
cantando in lor manera:
infra la primavera, - che ven presente
frescamente - così frondita,
ciascuno invita - d’aver gioia intera.
Confortami d’amore10
l’aulimento dei fiori
e ’l canto de li auselli;
quando lo giorno appare,
sento li dolci amori
e li versi novelli,15
chè fan si dolci e belli - e divisati
lor trovati - a provasione;
a gran tenzone - stan per li arbuscelli.
Quando l’aloda intendo
e rusignuol vernare20
d’amor lo cor m’afina,
magiormente intendo
ch’è legno d’altr’affare
chè d’arder no rifina.
Vedendo quell’ombrina - del fresco bosco,25
ben cognosco - ca cortamente
serà gaudente - l’amor che mi china.
[Mi] china, ch’eo so amata,
e già mai non amai:
ma ’l tempo mi ’namura30
e fami star pensata
d’aver mercè ormai
d’un fante che m’adura;
e sac[c]io che tortura - per me sostene
e gran pene. - L’un cor mi dice35
che si disdice, - e l’altro mi sicura.
Però prego l’Amore,
che mi ’ntende e mi svoglia
come la foglia vento,
che no mi fac[c]ia fore40
quel che presio mi toglia
e stia di me contento.
Quelli c’à intendimento - d’avere intera
gioia e c[i]era - de l[o] mio amore
senza romore, - no nde à compimento.45
Bibliografia: Contini, Gianfranco, Poeti del Duecento, Milano : R. Ricciardi, 1995.
Rimatori della scuola siciliana a cura di Panvini, Firenze : Olschki, 1962-64.
La poesia lirica del Duecento a cura di Carlo Salinari, Torino : UTET, 1968.
Collegamenti esterni:
- • Rinaldo d'Aquino su Wikipedia
- • Rinaldo d'Aquino nell'Enciclopedia Treccani
- • Rinaldo d'Aquino nell'Enciclopedia Treccani (Federiciana, 2005)
- • Rinaldo d'Aquino nell'Enciclopedia Dantesca della Treccani
- • La Scuola siciliana nell'Enciclopedia Treccani
- • La Scuola poetica siciliana nell'Enciclopedia Treccani
- • La cultura cavalleresca nell'Enciclopedia Treccani
- • Federico II di Hohenstaufen e il tramonto della dinastia sveva in Italia nell'Enciclopedia Treccani
- • San Tommaso d'Aquino nell'Enciclopedia Treccani
Rinaldo d'Aquino: Opere in catalogo
Rinaldo d'Aquino: GLOSSARIO
- falconiere
- Nel Medioevo, ufficiale preposto alla falconeria, incaricato di ammaestrare e curare gli uccelli da preda adoperati nella caccia.